Da albergo per pellegrini a dimora di lusso per turisti, nei suoi 751 anni di vita Ca’ di Dio non ha mai perso la sua vocazione originaria: l’ospitalità. Che oggi, declinata nel design di Patricia Urquiola e nell’offerta f&b del ristorante VERO, si pone al servizio di un ospite che cerca una accoglienza a misura d’uomo
A due passi dalla Biennale, su Riva degli Schiavoni, davanti all’isola di San Giorgio, dal 1272 Ca’ di Dio, benché trasformatasi tante volte nell’aspetto e nelle forme nei secoli, svolge sempre la stessa funzione: alloggio per pellegrini diretti in Terra Santa, ospizio per donne in difficoltà, ora dimora di lusso per turisti: a Ca’ di Dio si dorme e si mangia insomma, per quanto oggi in modo molto diverso da come l’hanno fatto in passato i suoi variegati ospiti. Quelli che infatti ne varcano adesso l’ingresso volutamente privo di insegna (non c’è mai stata nei 751 anni della sua storia e non sarebbe in linea con la sua vocazione), posto su una facciata dipinta di un chiaro grigio abbacinante sotto i raggi di un caldo sole di fine maggio, non si ritrovano più all’interno dell’antico oratorio di Santa Maria, inglobato nel corpo dell’edificio, ma nella elegante, rutilante lobby disegnata da Patricia Urquiola.
È qui che, sotto un lampadario da 14mila cristalli in vetro di Murano che domina con tre grandi vele lo spazio a doppia altezza, il personale dedicato al benvenuto disbriga le pratiche per poi accompagnare i clienti nelle proprie stanze: 57 suite e 9 camere deluxe, ciascuna delle quali con una vista unica: del bacino di San Marco o dell’isola di San Giorgio Maggiore, del rio adiacente la struttura o delle corti interne, alla cui sommità si trovano due ampie altane. Tutto frutto della ristrutturazione durata due anni, al termine della quale questo pezzo di storia veneziano dalle mille vite si è trasformato in un elegante rifugio della collezione VRetreats, parte del gruppo Alpitour. Che ha affidato il progetto di interior design alla famosa architetta spagnola dal 2001 di casa a Milano, che per il radicale restyling ha optato per materiali rappresentativi della città Serenissima e della sua millenaria tradizione. Risultato: il progetto “Venessentia”, un concetto di accoglienza che, come spiega Christophe Mercier, general manager dell’hotel, parte da Ca’ di Dio alla scoperta dell’unicità di Venezia.
Piano (per) piano
Presupposto: “Questa non è un palazzo, è una casa”, sottolinea il francese Mercier, ricostruendo il percorso di collaborazione con Urquiola, fondato sul desiderio comune di non stravolgere un luogo votato da sempre all’accoglienza. “Certo è una casa di 4.000 mq ma deve rimanere tale”, riprende il manager. “Tutto il progetto rientra nella filosofia che Alpitur ha elaborato durante la pandemia: creare strutture per una ospitalità a misura d’uomo che rispecchiano e declinano i punti di forza del territorio in cui sono collocate”.
Di qui gli evidenti rimandi alle dimore veneziane nella scelta di materiali forme e colori, permettendo però allo stesso tempo all’ospite di percepire la storia che trasuda dai muri di questo immenso edificio. Detto, fatto: largo spazio a travertino iraniano e pietra d’orcia; legni tessuti e vetri della tradizione locale alle pareti. E poi boiserie tessili e cornici in legno, un pouf scendiletto in tessuto veneziano, applique e piantane realizzate “a bocca” a Murano su disegno di Urquiola nelle stanze. Fondamentale il vetro, che si ritrova sia nei vasi che in altri elementi di styling, fino al trionfo delle vele della lobby, dove questo elemento indissolubilmente legato alla città lagunare è stato oggetto di una sperimentazione voluta dalla designer per le porte, attraverso l’impiego della tecnica di termoformatura, imprimendo nella sabbia i vecchi rulli in vetro utilizzati per le tradizionali vetrate piombate veneziane.
Per i colori, il concetto di riflesso che rappresenta un altro importante tema progettuale della ristrutturazione ha portato all’adozione di toni freddi: azzurri, verdi e grigi che poi confluiscono verso le tinte più calde dei mattoni e delle terrecotte, richiamando il contrasto/incontro tra l’acqua delle calli e dei canali con i rossi gli arancioni e i marroni dei mattoni delle abitazioni.
Lo scrigno prezioso
Qui, dove l’architettura classica veneta incontra lo stile contemporaneo di Patricia Urquiola, si colloca il progetto di ristorazione VERO Venetian Roots, nel quale elementi originali del design sono espressione di autenticità, e dove la città e il territorio della Serenissima sono presenti in ogni dettaglio. Uno “scrigno prezioso” come lo definisce la designer. Organizzato in micro-salotti, impreziosito da stoviglie realizzate appositamente – come i bicchieri per il vino con il reticolato bianco – e la grande natura morta sul soffitto, tutto da VERO è fatto rigorosamente in casa: dalle paste ai lievitati, così come i piatti, espressione della Laguna e dei territori circostanti, con tanto pesce e materie prime vegetali a incorniciare le creazioni della cucina. Il menu del VERO à la carte cambia seguendo i ritmi delle stagioni, e attraverso una metamorfosi – con la formula in half per lo stesso tavolo – diviene un menu degustazione. Ed è un’esperienza ancor più esaltata dalla possibilità di scegliere un wine o cocktail pairing in collaborazione con Alchemia, il cocktail bar interno a Ca’ di Dio che, oltre ad essere espressione della nuova mixology experience internazionale, è già diventato una delle mete predilette per l’aperitivo in Riva degli Schiavoni.
Il rispetto e la memoria
La parola rispetto è fondamentale nella cucina di Raimondo Squeo, l’executive chef del VERO: nei suoi piatti non mancano mai il rispetto per la materia prima, per la tecnica e per l’ospite, così come per la brigata, che accompagna in questa avventura il cuoco 38enne. “Essenziale e decisa nel seguire una logica temporale, sul filo di una tradizione che muove da sempre i ricordi e il palato. Poi non va dimenticato dove ci troviamo, in Laguna tra mare e terra, e così i piatti che propongo hanno sempre un richiamo ad entrambe”: ecco come descrive la sua cucina lo chef pugliese, esperienze al Ristorante La Caravella di Venezia, al Grand Hotel Principe di Piemonte di Viareggio, nella giovane brigata guidata dallo chef Giuseppe Mancino, nel 5 stelle Hotel Bella Riva sul Lago di Garda, nel ristorante della famiglia Serandrei, e, prima di approdare a VERO, all’Hungaria Palace e al Metropole.
Tra i suoi piatti forti, Squeo ama citare il pesce da zuppa dell’Adriatico, che mette in fila la gallinella e il rombo, il San Pietro e la seppia, e poi le capesante, le vongole e i conchiliacei, sempre accompagnati da elementi fortemente vegetali. Senza trascurare la carne del territorio, perché, come sottolinea, “sono molto legato all’agnello e alla vacca veneta, che vengono allevati in modo naturale e ci donano una carne stupenda, che ha un proprio ‘bite’ e un sapore deciso seppur delicato”.
Più che presentare un vero e proprio piatto “cavallo di battaglia”, al cuoco piace lavorare su un “gusto signature”, che è l’incontro tra latticini e crostacei. Come nel caso di una salsa alla busara, al torchio di scampi e con un assaggio di burrata, alla quale abbina una salicornia lagunare. Se proprio vogliamo cercare un piatto della memoria, la proustiana “madeleine” di Squeo sono le linguine fatte in casa con farina bio, vongole e limone: “Vado a cercare la farina veneta certificata Bio, macinata a pietra, o il riso presidio Slow Food di Grumolo delle Abbadesse, nel vicentino, che è ricco di ‘difetti’ ma per me è stimolante”, precisa.
Del pane e dei dolci
La passione vera dello chef è però da sempre la panificazione, ovvero dedicarsi alle lunghe lievitazioni del pane, soprattutto quello bianco, “con solo acqua e farina, o al nero di seppia, o ancora con uvetta e acqua di mare”. Quando cerca ispirazione e relax fuori dalla cucina, il cuoco le trova girovagando tra le calli del ghetto o in Giudecca, ma anche a Sant’Erasmo dove tra i produttori di primizie ha tanti amici, che condividono con lui la migliore materia prima – carciofi, broccoli, miele di barena – ma anche consigli, esperienze, idee, che spesso ispirano un nuovo piatto. A volte può essere anche un dolce, l’arte in cui Raimondo Squeo si è specializzato: “Il gelato mi ha davvero rubato l’anima”, afferma, “e riproduco il ricordo di gusti legati all’infanzia, come la vaniglia e malaga, per colpa di papà, e la zuppa inglese, per la mamma. O con la liquirizia da abbinare alla crema di zafferano”. Infine, non mancano i sorbetti, come quelli al basilico, al pompelmo e allo champagne, in onore alle origini francesi dell’hotel manager Christophe Mercier, anche lui in qualche modo ispiratore di alcune creazioni dello chef. A riassumere la filosofia in cucina di Squeo è una frase che ripete spesso alla brigata: “Pensa, pesa e cucina”.
Al bancone, sulla Riva e nella Corte: la mixology è servita
Contiguo alla splendida corte interna di Ca’ da Dio, vi è un giardino segreto, con erbe officinali e profumi, che sono alla base di molti signature cocktail dell’Alchemia, il bar della dimora veneziana. È qui i bartender racconteranno le storie, gli ingredienti e i segreti per realizzarli e il locale, diretto all’esperto bar manager Diego Filippone, propone i suoi ospiti un’esperienza intima e ispirata, quasi alchemica appunto, basata sulla tradizione locale mescolata con la più contemporanea mixology internazionale, all’interno di un spazio concepito come un moderno speakeasy veneziano. Solo su prenotazione è possibile sedersi anche all’esterno, in un “angolo” privato sulla Riva degli Schiavoni, mentre la Corte interna del Ca’ di Dio, dalla primavera all’autunno, diviene il fulcro di una proposta dove si possono vivere esperienze esclusive e al contempo conviviali, tra cocktail signature accompagnati da piatti espressi realizzati in collaborazione con il ristorante VERO.
I piatti della cena