“Nostalgia canaglia”, verrebbe da dire. Abitando lì vicino, dove le “Cinque vie” si snodano e si disperdono nel dedalo delle viuzze fra il Carrobbio, Piazza San Sepolcro e il Cordusio, la Trattoria Milanese è stata una delle mie prime mete gastronomiche. Mi ci portavano i miei genitori, quando volevano festeggiare qualcosa, anche perché era uno dei pochi ristoranti in città aperti la domenica. Vi si mangiavano ottimi “messicani” (un piatto milanese ormai scomparso), una straordinaria trippa (la busecca vera, grigia del suo foiolo), un risotto giallo, col gusto denso del brodo di carne, servito con ossobuco (subito alla caccia del suo midollo, per godere “a prescindere”), che mi è rimasto nella memoria. Per non dire del lesso con la salsa verde. Non ho ricordi della cotoletta, ma altri commensali dell’epoca la ricordano come molto buona: alta un centimetro e mezzo, impanata a dovere, leggermente rosa all’interno, fritta nel burro (non chiarificato, ai tempi non era ancora diventato un must del marketing culinario per sciurette a dieta). Certo, quarant’anni fa la Trattoria era un’altra cosa, Milano era un’altra cosa, noi stessi eravamo diversi e tutto aveva un altro sentore: in via del Bollo, lì dietro, vecchie prostitute cercavano clienti, proprio davanti a una cartoleria storica, poi distrutta in nome del rinnovamento urbanistico della città. Ma qualcosa ha resistito, in un modo o nell’altro, a strenua difesa di un modo d’essere “milanesi”, ovvero pratici ed essenziali, poco inclini verso la “cosmetica” della ristorazione, alieni da voli pindarici. Sì, la Milano della ristorazione era (anche) questo: pochi fronzoli, badare al sodo, andare diritti all’obiettivo. La Milano della moda non esisteva, solo alcuni grandi sarti (Caraceni, Di Francesco e pochi altri) erano protagonisti di quell’eleganza su misura, raffinata ma essenziale, soppiantata poi dall’arrivo di griffe pretenziose e dalla diffusione del prêt à porter. La Milano degli chef superstar era di là da venire, ma c’erano luoghi “sicuri”, approdi caldi e familiari, nei quali trascorrere qualche ora serena: fra questi ricordo le Vecchie Abbadesse (nel 1969 mio nonno ci festeggiò le nozze d’oro), la Brasera Meneghina di via Circo, il San Bernardo del mitico Alfredo Valli, la Antica Trattoria della Pesa della Ezia Calatti (una “signora” della ristorazione, duramente attaccata sul Corriere d’informazione dal collega Raspelli perché “non aveva un’aspirina”)… La Trattoria Milanese era uno di questi luoghi: allora assolutamente contemporaneo, oggi dal sapore più “anticato”, ma pur sempre con la sua ragion d’essere, visto anche il successo che continua a riscuotere in quella fascia di milanesi della zona, che lo ritengono sempre una meta sicura. La trattoria aprì nel 1933 e, passata di generazione in generazione, è da quarant’anni nelle salde mani di Giuseppe Villa, figura fortemente legata a Milano, un imprenditore che ha sempre preferito “toccare il meno possibile”, pur nel restyling che, una quindicina di anni fa, ha adeguato gli spazi a logiche più moderne di spazio ed efficienza logistica. A proposito di “non cambiare nulla”, va detto che il menù (una pagina fitta di voci) rispecchia ancora all’80% quello degli anni Settanta. Ci sono ancora gli stessi piatti, come se non fosse cambiato nulla (si tenga presenta che la data della mia visita risale a fine marzo e che a inizio estate alcuni piatti vengono sostituiti con altri più “leggeri”). Antipasti: prosciutto, lardo e salumi vari, nervetti, bresaola dell’Alta Valtellina, patè casalingo di tonno. Fra le minestre (così si chiamano i primi, in ossequio a tradizione antica): brodo in tazza (6 euro), tortellini a mano al sugo di arrosto, risotto alla milanese, risotto al salto, minestrone di pasta, zuppa di legumi. Fra i “piatti da farsi”: risotto e ossobuco, bistecca con uovo, paillard ai ferri, nodino di vitello, rognone trifolato con polenta, cervella di vitello fresca, fritture miste di vitello (cuore, animelle, fegato e rognone, ottimo piatto), carne cruda olio e limone (chiedetela senza), costolette alla milanese (pretendete dal patron che sia lui stesso a supervisionarne la preparazione, dalla scelta del carrè di vitello fino alla cottura: è una garanzia in più, dato che l’occhio di Giuseppe Villa ci vede molto lungo). Fra i “piatti del giorno”: cotechino di Sabbioneta con lenticchie, polenta e brasato, due uova a piacere, polpettone di vitello al forno, mondeghili, polpette al pomodoro, polenta uovo e gorgonzola, ossobuco in umido, foiolo alla milanese, fesa o punta di vitello al forno. Fra i legumi-verdure: insalata di carciofi con parmigiano, carciofi freschi al tegame, cicorino nostrano, asparagi a piacere, patate al prezzemolo, polenta nostrana, insalata russa fresca casalinga (da notare che non è inserita nella sezione “antipasti”, essendo storicamente considerata, a Milano, un “contorno”), verdure saltate ecc. La sezione Pesci è quasi inesistente: solo un intrusissimo salmone ai ferri o al vapore fa la sua comparsa. Fra i dolci: lo zabaione, il tiramisù, e poche altre proposte, perché la vecchia ristorazione milanese non prevedeva una ricca offerta di dessert, spesso inesistenti salvo il panettone quando la ricorrenza lo imponeva. Le proposte di vini sono fortemente orientate al binomio Piemonte-Toscana, dove emergono etichette di una classicità blasonatissima: Marchesi di Barolo, Poderi Einaudi, Parusso in testa, con Tenuta San Guido e altre etichette di grandi rossi a seguire. Dunque, un menù tradizionale, per non dire “vecchio”, ma fortemente appetitoso da chi, in questa città che ha tradito le sue origini e non ha saputo o voluto valorizzare le sue migliori usanze gastronomiche, è alla continua ricerca di autenticità. Valore ormai abbastanza disperso o, forse, tramutatosi in altre forme di offerta: la presenza di una ristorazione vivace e creativa, oltre che parzialmente attenta anche a certi recuperi (di piatti, ricette, tradizioni) è tutto sommato incoraggiante. La scena milanese, come leggete sulle nostre pagine, non è affatto statica e decine di insegne si affacciano ogni giorno sul mercato. Artù verifica quotidianamente nuove aperture e registra, anche, molte chiusure e avvicendamenti. In nome di una regola giornalistica sempre attuale (“i fatti separati dalle opinioni”), registriamo cambiamenti, innovazioni, affermazioni di chef, fughe da situazioni difficili (perché c’è anche chi, scarsamente motivato dalle proprietà o in virtù di altre opportunità, sceglie la impegnativa via della fuga). E discutiamo e creiamo forum sul nostro sito o sui social, per capire insieme a chi ci segue cosa stia succedendo oggi nell’Italia della ristorazione. Ma, come nel caso della Trattoria Milanese, ci piace – nonostante tutto – ritornare con discrezione, quatti quatti, nei luoghi della memoria, quelli in cui “si è toccato il meno possibile” (a parte i prezzi che si sono adeguati alla media milanese, pur senza vistose esagerazioni ), quei ristoranti o trattorie in cui il perfezionismo non è ancora passato e quella esasperata competizione che oggi caratterizza la città, viene guardata con distacco, quasi con distanza, con quella superiorità di chi sembra dire: “fate, fate pure, tanto noi continuiamo sulla nostra strada, con tenacia ed ostinazione”. Certo, forse una maggiore caratterizzazione in chiave milanese, magari con una riduzione nel numero di voci in menù, così come la “esibizione” di uno chef e di una brigata di cucina, aiuterebbero ad avere maggiori consensi dalla critica gastronomica: ma questa non mi pare essere una priorità del signor Villa, più orientato alla fedeltà della sua clientela che alle recensioni positive e mielose. Così la Trattoria Milanese continua per la sua strada, piaccia o no: con pregi e difetti che, lasciatecelo dire, sono in fondo segno di quella “grande normalità” che molti, ancora, accettano (in molti casi, desiderano) di trovare sul proprio cammino gastronomico. Alberto. P. Schieppati
Via Santa Marta 11 – 20123 MIlano – tel. 02 86451991
© Artù