Accolta inspiegabilmente come una “splendida notizia” dal più importante dei critici gastronomici, Edoardo Raspelli, la svolta bio di Alain Ducasse ha lasciato basiti molti chef, ma anche parecchi giornalisti. “Addio foie gras, tartare, entrecôte”. La riconversione del re della cucina francese può sembrare più una trovata di marketing che un effettivo cambio di rotta della propria linea di cucina. Da metà settembre, comunque, dal menù del suo ristorante parigino al Plaza Athénée, gioiello della Dorchester Collection, sono banditi tutti i piatti di carne: protagonisti dell’offerta sono, infatti, cereali, legumi, verdure. Ma anche pesce, soia, prodotti da agricoltura “bio”, coltivati (ci dicono) a Versailles. Come dire, a km (quasi) zero. Il prezzo del menù degustazione, in ogni caso, resta immutato: 380 euro, bevande escluse. È singolare che la dichiarazione di Ducasse arrivi proprio nel momento in cui, nella ristorazione di alta qualità, quella fatta da professionisti di lungo corso e da chef con gli “attributi”, si assista a una riabilitazione “mirata e consapevole” delle proposte di carne. Penso a Luca Brasi e alle sue proposte di Wagyu, o a Simone Fracassi che va riscoprendo da anni razze di territorio. O al basco Txogitxu che propone la “vieja vaca” a centinaia di chef innovativi, che non vogliono mai darsi per vinti sulla strada della evoluzione delle proposte. O, ancora, a Sergio Motta, che ha trasformato la sua macelleria di tradizione in luogo di alta specializzazione, dando la priorità alla autentica razza piemontese. O a Jeff Martin, che insiste da tempo sul Dry Aging, necessario a esaltare il gusto e le proprietà organolettiche delle carni. Ma ce ne sarebbero di chef, macellai, professionisti da citare sull’argomento. Prima di venire indiziato dal mio ordine professionale di pubblicità occulta, mi fermo nel dare informazioni. Ricordo solo che sull’argomento carne si è aperto un dibattito serio e approfondito che riguarda, nell’ordine, qualità dei capi, allevamenti, alimentazione, frollature, tecniche di cottura e quant’altro. È solo anticonformismo, quello di Ducasse? O è il frutto di una seria analisi sul food cost? In fondo, una rapa, buona che sia, costa molto ma molto meno del filetto di manzo di razza charolais allevata e alimentata con tutti i crismi. O forse è una scelta, quella di schierarsi dalla parte di ciò che fa notizia nella società? Oggi vince chi fa audience, ci dicono. Inutile negarlo, la cultura del biologico, in tutte le sue forme, anche le meno nobili, alligna e si diffonde a macchia d’olio (biologico?). Spesso come risposta alle ansie salutistiche della popolazione. Talvolta come espressione di un impegno reale, serio ed onesto. In altri casi per tentare un business percepito come “facile”. Ovviamente, la statura professionale di Ducasse ci pone al riparo da illazioni dietrologiche, verso le quali, peraltro, non ci piace indulgere. Ma i dubbi sulla sua scelta restano. D’altra parte sul variegato fronte del bio, ma anche del vegano e di ogni altra forma di ricerca esasperata di stili alimentari che tutelino la salute, c’è un discreto sovraffollamento. Qualche giorno fa mi è capitato fra le mani un catalogo di prodotti bio e “vegan”, acquistabili on line, che propone oltre 500 referenze! Così, sulla fiducia. Belle le descrizioni di bacche e gomasio, azuki e tofu, suggestive le indicazioni di consumo, elevatissimi i prezzi. Sarà un successo? Chi può dirlo? Da parte nostra, prendiamo atto di quanto ha dichiarato l’amico Giorgio Calabrese, il professore per antonomasia. E concludiamo con le sue parole: “Chi sceglie di eliminare la carne per ragioni di coscienza, faccia pure. Nel caso del ristorante parigino, mi sembra più una manovra di cartello che non di vero salutismo. La ristorazione è in crisi, allora si provano ad attirare nuovi pubblici”. Di Alberto P. Schieppati
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