Alberto P. Schieppati
La tragedia del terremoto, prima ad Amatrice, poi a Visso, a Norcia, Sarnano e un po’ dovunque in quel “cuore verde d’Italia” che lambisce Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, ci coinvolge e atterrisce. L’ansia in cui decine di migliaia di persone vivono oggi la loro quotidianità, aldilà di quanti hanno perso tutto (casa, lavoro, opportunità, amicizie, affari) è la nostra ansia. La lunga crinale appenninica del Centro Italia (nella sua linea che va dall’Appennino Pesarese fino ai Monti della Laga e ai Sibillini e giù verso sud est) è diventata una enorme crepa senza fondo e senza fine, una dorsale tumultuosa che si sta incrinando al punto tale da evocare fantasmi ancor più tragici, oggettivamente ingestibili: l’Italia si spacca in due, in tre, in cento, mille particelle che diventano invivibili, con case e monumenti storici in polvere, con la disperazione che monta, con la certezza per tanti di essere degli homeless, a lungo, non si sa per quanto. O comunque privi di ogni sicurezza. Come se, con loro, si polverizzasse la nostra storia, la nostra cultura, le relazioni, l’essenza stessa della vita. Chi conosce quei territori, peraltro di una bellezza mozzafiato, sa quanto sia complessa ogni possibilità di intervento immediato, razionale, organizzato. La logistica dei luoghi non facilita in alcun modo la rapidità nei soccorsi, negli aiuti concreti, nella possibilità di mettere in sicurezza in tempi brevi un territorio enorme, che comprende centinaia di frazioni, villaggi, case sparse. Distanti l’una dall’altra da strade tortuose, sterrate, con tempi di percorrenza biblici e mezzi di trasporto pubblico rari o inesistenti. Facile dire, come molti fanno: “in Giappone terremoti ben peggiori non creano alcun problema”. Probabilmente, chi parla in questo modo è affetto da sindrome di semplificazione; il confronto è impossibile, credetemi. Per la tipologia delle abitazioni, per l’organizzazione generale di quel Paese, per la cultura antisismica che fa parte del dna dei Giapponesi, per la serietà della politica, contrapposta al nostro fatalismo bonario, al “carpe diem” oraziano che contraddistingue la gran parte dei nostri comportamenti. “Del doman non v’è certezza” è la filosofia italica di vita, che purtroppo è ancora oggi un criterio al quale (non) ispirarsi. Il discorso è lungo e complesso e andrebbe affrontato tenendo conto di tante variabili: ma parlare a vanvera è esercizio diffuso in Italia, e forse, varrebbe la pena di riflettere più a lungo prima di sparare sentenze. Andando oltre le evidenze, però, mi viene da dire: per fare qualcosa di concreto, in cui il “contenuto” assume un’importanza non trascurabile, utilizziamo di più e meglio le specialità alimentari – spesso ritenute minori – di quel magico lembo d’Italia, oggi devastato. Penso al Salame di Visso, il mitico Ciauscolo che si può addirittura spalmare sul pane caldo, o alle minuscole Lenticchie di Castelluccio, alle gustose Cicerchie di Norcia, ma anche al Guanciale di Amatrice, di cui già molto si è detto. O alla Marotta, il delizioso salame di carne magra, fatto utilizzando la spalla del maiale, il Nero Sabino allevato nel quadrilatero compreso fra Amatrice, Campotosto, Leonessa, Norcia. O, ancora, alle patate di Colfiorito, icona di qualità, spesso dimenticate in nome di varietà straniere. Se cercassimo, per quanto possibile, di dare un contributo attivo e concreto a queste produzioni (ordinandole nei propri locali, sostenendone il valore e diffondendone le caratteristiche), daremmo un bel segnale, forte e solidale. Simbolico certo, ma anche sostanziale. Dalla parte del gusto e della qualità, pur nella consapevolezza delle quantità, rese ancor più limitate dagli effetti devastanti del sisma.
© Artù