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di Alberto P. Schieppchefati

A furia di voler semplificare, il rischio della deriva grossolana è sempre in agguato. Parliamo di cuochi, visto che l’argomento è vergine (!). Quelli che imperversano in televisione (e pure, in certi casi, sono professionisti veri, nonché grandi amici da tempo) sono una esigua minoranza rispetto alla totalità delle giacche bianche: eppure, sono loro a fare audience, i Big Five o pochi più, mentre la gran parte dei loro colleghi, lontani dai riflettori, è alle prese con una quotidianità sconosciuta ai più. In molti casi sono dei (e delle) fuoriclasse, in altri hanno a che fare con una realtà non sempre entusiasmante, spesso dura e a volte umiliante, dati i livelli imprenditoriali della ristorazione nazionale. Insomma, non si può generalizzare, essendo l’universo dei cuochi estremamente variegato e difficilmente omologabile. Detto questo, aldilà delle rispettabili opinioni di ognuno sui celebrity chef, mi farebbe piacere che qualcuno (oltre a noi) si concentrasse anche su quanti “non fanno notizia”, non sono onnipresenti, non cucinano ad “eventi”, non sono protagonisti di show-cooking di rilevanza mediatica, non sempre hanno stelle che brillano da esibire al mercato, anche se le meriterebbero. In moltissimi casi sono professionisti determinati, coraggiosi, strutturati. Fanno quella che amiamo definire “Ristorazione ragionevole”, utilizzando ingredienti ai massimi livelli di qualità e proponendoli correttamente alla propria clientela. Bravi, curiosi e preparati, spesso sottopagati. E, se sono patron, alle prese con un cambiamento epocale nei comportamenti della clientela, sempre meno propensa a spendere somme molto elevate: al punto che molti chef si inventano in continuazione “seconde linee” semplificate, modello osteria, bistrò ecc. o, se possono, contano sul movimento internazionale di clientela gourmand, appassionata e alto-spendente. Questi cuochi passano molto tempo in cucina, a preparare piatti che si fanno ricordare per sapori e innovazione, anche se non hanno la pretesa di inventare a tutti i costi qualcosa di rivoluzionario, di irripetibile. Attenzione, non voglio subordinare la genialità dei valorosi protagonisti dell’alta cucina italiana alla ripetitività del lavoro di molti, che sono spesso puri esecutori. Il fatto è che fra questi “molti”, erroneamente sottovalutati, si nascondono talvolta talenti di cui pochi si accorgono. Per pigrizia. Per consuetudine. Per assenza di curiosità. Perché parlare (e scrivere) dei famosi è più facile e porta (dicono) visibilità e business. Può darsi. Vorrei però che, oltre allo schermo demenziale (ma tanto, tanto redditizio), in cui “per contratto” si sparano insulti e frustrazioni verso chi si accosta, magari per la prima volta, al mestiere, ci fosse anche un occhio di riguardo (e di rispetto) per quanti rappresentano poi la grande maggioranza di chi fa questo mestiere. Vorrei che si parlasse di più di materie prime e di food cost, di bacini di clientela e di piatti, tradizionali o contemporanei, di gusto e di sapori, di motivazione del personale e di gestione della sala, di prezzi e di valore, di prestigio e di immagine: insomma vorrei che si parlasse dei problemi veri e non di quanto uno diventa famoso perché è bravo nell’insultare o nel demotivare. Ma non sarebbe ora di uscire dalla deriva? Come pensiamo che i giovani possano appassionarsi al mestiere se – come ieri per i calciatori e le veline – favoriamo false aspettative? O se facciamo passare il concetto che quanto più uno umilia (e urla) tanto più aiuta a crescere professionalmente? No, non funziona così. L’umiltà è un valore che va trasmesso con i comportamenti, con la coerenza, con l’esempio. Penso allo stile (e alla grazia) di tante donne chef e alla loro capacità di trasmettere valori alla brigata di cucina. Penso alla bontà di certi piatti che nascono da ingegno, passione e sacrificio. Penso a chi mantiene un impegno costante e continuativo nella propria attività creativa. Penso a quanti, stelle o non stelle, esprimono amore autentico per il proprio lavoro.  Vorrei che la piantassimo di esagerare nel “pompare” i soliti noti o, quantomeno, vorrei che si cogliessero gli aspetti meritevoli dei loro piatti straordinari, a base di materie prime di qualità estrema, e che si raccontassero i motivi della loro ”marcia in più”. Senza spettacolarizzazioni, senza l’imperativo dell’evento a tutti i costi, ma seguendo la regola elementare della domanda e dell’offerta. E della corretta informazione che, per chi fa questo mestiere, è un dovere morale. Chiedo troppo?

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