di Alberto P. Schieppati
Mezzo secolo di Vinitaly. Cinquant’anni, di cui almeno trenta ci hanno visti presenti, ogni anno, con fedeltà e dedizione, per tutto il periodo della fiera. Vinitaly dovrebbe darci una medaglia. Con o senza stand, ma sempre con grinta, determinazione e con l’attenzione necessaria che i professionisti seri devono riservare ai grandi eventi. E Vinitaly indubbiamente lo è, con i suoi 4.100 espositori, con le migliaia di buyer internazionali che affollano ogni anno la fiera, con la tensione positiva che contraddistingue le cantine espositrici, orientate a comunicare i risultati raggiunti sul fronte qualitativo e a lavorare sempre meglio per conquistare nuovi mercati internazionali. Tutto bello, bellissimo, o quasi: nel 2015 l’export è cresciuto ancora (+5.4%) sull’anno precedente, il made in Italy spopola nel mondo e funge da grande motivo di richiamo. Ma, si chiede qualcuno a bassa voce, “e in Italia come va?” Che succede sul mercato interno? È vero, mi domanda un enologo americano, “che da voi si beve sempre meno”? “E che i vostri grandi vini, al ristorante, sono richiesti solo dalla clientela internazionale”? Perché? Gli italiani non spendono più per il vino? Dov’è finito lo stile italiano? Mica facile, rispondere a questa domanda. Di certo lo stile italiano del vino riguarda più il prodotto che i consumi (o i consumatori). E i produttori, giustamente, cercano di esportare questo stile nel mondo. D’altronde, i dati relativi al mercato interno ci parlano di consumi in caduta libera, in modo direi speculare all’andamento economico del nostro paese, nonostante proclami e autoconvincimenti onirici (disturba qualcuno doverlo ammettere?). Rulli di tamburo e grancassa a parte, infatti, varrebbe la pena di fare una riflessione profonda sullo stato dell’arte di: consumi interni, immagine, prezzi delle nostre etichette, dalle più prestigiose a quelle “di tutti i giorni”. Dopo esserci beati per anni, organizzando convegni e tavole rotonde sul fatto che “il vino rosso fa bene alla salute”, che “i nostri vini hanno un ottimo rapporto qualità-prezzo”, che “il servizio del vino nel nostro paese è il migliore al mondo” (grazie, sommelier!), dopo tutte queste (vere, peraltro) attestazioni di autostima, ora dovremmo fare i salti di gioia perché l’export è in continua crescita!?! Preferirei gioire del fatto che i consumi in Italia crescono e si qualificano, grazie alla costante tendenza a scegliere (e acquistare) vini sempre più di qualità. Ma non è così: gran parte delle aziende (e le si può anche capire, sotto certi aspetti vi sono costrette) hanno concentrato i propri sforzi sull’export: perché i mercati sono più attenti, i consumatori più preparati, i prezzi (anche elevati) più accettati. Con buone strategie di marketing, sorrette dal lavoro di importatori capillarmente presenti sui mercati esteri, il vino italiano ha letteralmente conquistato il mondo, il vecchio ma anche il nuovo. Così, mentre a Roma la politica esalta il business internazionale, nei nostri wine bar si fatica a vendere bottiglie (agli italiani, oppressi da scadenze fiscali e carenza di liquidità). Per fortuna che c’è la clientela straniera, che paga, paga, paga. Il grande tema su cui dibattere dovrebbe, dunque, essere: come possiamo riqualificare la nostra immagine all’interno dei nostri confini, ritornando ad essere oltre che un grande Paese produttore anche un grande Paese consumatore? Meditate, gente, meditate.
© Artù