Complimenti a Massimo Bottura: arrivare primo al “Best 50” è un bel traguardo, motivo d’orgoglio per questa Italia che per troppo tempo ha dato di sé un’immagine riduttiva, incompleta, conviviale, approssimativa, modello pizza pasta e mandolino, insomma. I tempi sono cambiati e, grazie al cielo, la percezione del migliore made in Italy nel mondo (contraffazioni a parte) si è qualificata e rafforzata, arrivando ad essere sinonimo di qualità, gusto, freschezza, tipicità territoriali. E ora anche di alta professionalità, autorevolezza, capacità di comunicare il proprio valore. E questo ci mancava: perciò grazie Bottura, grazie Crippa, grazie Alajmo, grazie Scabin e grazie a tutti quei grandi professionisti che passano ore e ore nelle loro cucine a lavorare, studiare, preparare, selezionare, impiattare. Questi cuochi, spesso imprenditori, sono maestri nelle esecuzioni ma anche, sempre di più, analisti e osservatori dei mercati ai quali si rivolgono. In qualche caso, sono fini intellettuali, capaci di andare oltre gli schematici ruoli di meri cucinieri nei quali parte dell’opinione pubblica li vorrebbe relegare. Oltre alle materie prime e alle tecniche, conoscono bene i loro clienti, il bacino di territorio su cui operano, i cambiamenti sociali, i flussi e i movimenti internazionali che portano nei loro ristoranti gourmet delle più diverse provenienze. E qui arriviamo al punto: per essere veramente grandi nel mondo abbiamo bisogno di contare su un mercato interno vivace, su consumi più forti e strutturati, su una clientela più curiosa e più spendente. Ben venga la clientela internazionale a sostenere la nostra economia, ma questo non può bastare a vincere le sfide. Dobbiamo essere forti innanzitutto nel nostro Paese. L’alta ristorazione deve poter contare su una clientela italiana, prima di tutto. È qui che dobbiamo chiudere in positivo i nostri bilanci. E questo, a parte rare eccezioni, non accade: perché l’Italia, anche se è vietato dirlo, non è ancora uscita dalla crisi. Certamente, risultati come quelli di New York contribuiscono a migliorare la nostra immagine, ma la sensazione è che l’Italia (gli italiani, meglio) si sia impermeabilizzata, continuando la sua parabola fra alti e bassi, seppure illuminata da astri, comete e stelle. Molte nuove aperture, a Milano o a Roma, fanno dire ai media che il settore dell’alta ristorazione è in netta ripresa, bene: alle inaugurazioni, però, deve seguire la risposta dei mercati, che non sono solo l’evento estemporaneo o la lode della critica, ma anche il raggiungimento dei business auspicati. Quando lo scenario è troppo competitivo, è necessario che ogni attore giochi le proprie carte evidenziando stile e caratterizzazione, per essere diverso dai concorrenti. È dall’insieme delle unicità che si consolida la “nuova onda” che ha invaso l’Italia. Il rischio, altrimenti, è l’omologazione. Perciò alla “facciata” dobbiamo preferire la sostanza, quella vera, fatta di ingredienti e materie prime, oggetto della passione degli chef ma anche della loro interpretazione contemporanea, fatta di genialità e, insieme, di ragionevolezza. Di Alberto P. Schieppati
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