Nel nostro dizionario, la parola abbinamento è intesa come l’accostamento tra due elementi simili o complementari: è esattamente ciò che succede al ristorante, quando si inizia a scegliere un vino nell’istante esatto in cui il cameriere ci chiede cosa vorremmo accompagnare con il piatto appena ordinato. È la situazione classica, la prassi diventata regola: prima si sceglie il cibo e poi, semmai, si pensa al bere. È forse possibile immaginare un percorso al contrario, partendo dalla scelta del vino? Lo abbiamo fatto da tre prospettive diverse e complementari, chiedendolo a uno chef, un’azienda vinicola e un centro di analisi sensoriale.
Filippo La Mantia è un siciliano, prima ancora che uno chef. Una vita di cambiamenti e di scelte che alla fine sono confluite in cucina, ad altissimi livelli. Chi, come lui, è abituato a ragionare controcorrente può provare a spiegare cosa ispira uno chef ai fornelli se la richiesta è di abbinamento a un vino. Prima ancora che sulla tecnica in cucina, è infatti sul pensiero che va posto l’accento per capire il suo approccio. “Cosa penso quando elaboro il menu di un ristorante? Ammetto che la mia attenzione cade esclusivamente sui piatti e non sui vini che si potrebbero abbinare. Il percorso formativo e professionale di uno chef passa inevitabilmente anche attraverso la conoscenza dei vitigni e dei profili organolettici ma per un progetto come un menù non posso dare la priorità al bere o farmi in qualche modo condizionare, a meno che non si tratti di un evento specifico, su espressa richiesta di un produttore. ll cibo ha una complessità talmente elevata da mettere necessariamente in subordine il vino. Entrambi fanno parte dello stesso percorso perché entrambi vanno a finire nel palato dei nostri clienti e quindi è necessario che tutti e due soddisfino proprio quel palato. Tra l’altro le percezioni sensoriali di un cliente sono talmente soggettive che mai oserei decidere io i vini da poter abbinare con i miei piatti. È il cibo, quindi, non il vino, il mio punto di partenza. Ragiono sempre a stagionalità locale, non vivo mai l’obbligo della carta (se mi mancano gli ingredienti freschi, vorrà dire che preparerò altro pur di garantire alta qualità al piatto) e non forzo Madre Natura per nessuna ragione. Credo che il grande compito di chi cucina sia dare vita a un ingrediente, attribuirgli un carattere. Per la mia esperienza non esistono cibi che non si possano abbinare ai vini, anche se alcuni elementi sono già di per sé contenitori incredibili di profumi e aromi: è quello che cerco di far capire attraverso gli agrumi che fanno da base alla mia cucina”. Filippo La Mantia ama le bollicine e i vini biodinamici, sostiene con generoso entusiasmo il pregio di molti piccoli produttori dell’Italia del vino, promuove i nomi sconosciuti di etichette che arrivano dalla Sicilia ma soprattutto denuncia i ricarichi eccessivi di molti ristoranti sui prezzi delle bottiglie come una vera mancanza di rispetto nei confronti delle aziende e dei loro territori. www.filippolamantia.com
Ruffino sa di Toscana, anche se la proprietà è confluita da alcuni anni all’estero (Constellation, dal 2006). Nella geografia dei brand italiani ceduti in mano straniera, è un esempio felice che testimonia scambio di professionalità e rispetto per la cultura del prodotto. Proprio perché forte di una conoscenza decennale all’estero tra Inghilterra e Stati Uniti, Sandro Sartor – AD di Ruffino – descrive la strategia di produzione di un’azienda che pensa a target specifici e ad abbinamenti culinari (senza risparmiare riflessioni sagaci su aperitivi e carte dei vini). Se lo chef parte dal cibo, l’azienda non può che partire dalle uve e il posizionamento di una bottiglia si misura anche in funzione di accostamenti culinari strategici. È accaduto a luglio, nella tenuta di Ruffino a Poggio Casciano dove il noto pizzaiolo campano Giovanni Santarpia (trasferitosi anni fa nel Chianti a gestire il suo Ristorante Palazzo Pretorio, a San Donato in Poggio) ha saputo dimostrare il legame vincente tra vini e prodotti del territorio (su tutti, la pizza col lampredotto). Questo legame indissolubile tra cibo e vino è un rito irrinunciabile per gli italiani a tavola, dove la cultura delle preparazioni gastronomiche si trascina dietro tutto il resto. Tanto per citare il trend americano, invece, un’indagine di Wine Opinions – l’agenzia USA specializzata in ricerche di mercato nel settore enologico – conferma che circa il 60% dei consumatori abituali segue la regola del “wine without food”, ad ogni ora del giorno e senza riti gastronomici. Bella sfida per l’Italia. “Per Ruffino – spiega Sandro Sartor – abbiamo seguito proprio questo approccio inaugurando la linea Momenti (Rosatello Prima Cuvee e Vermentino), pensata per l’aperitivo e quindi per un cibo eterogeneo che non sia particolarmente speziato o invadente. Troppo spesso se ne dimentica la funzione dissetante: in teoria un calice dovrebbe accompagnare l’intero aperitivo per evitare al cliente di ordinare ancora una o due volte, incidendo poi sul conto, ma questo non accade quasi mai. Abbiamo voluto invertire una tendenza andando incontro alle esigenze del cliente e facendogli scoprire il reale valore di un vino e le potenzialità di freschezza e di abbinamento che può racchiudere. Ma se volessimo provare davvero a rendere protagonista il vino, dovremmo invertire la routine portando al cliente la sola carta dei vini o magari prima quella per poi suggerire un piatto da affiancare. Se non invertiamo l’ordine non ce la faremo mai. Stiamo ipotizzando un passaggio a dir poco culturale, ma come produttore mi sento di dire che ne varrebbe la pena. Il vino non è parte di corredo ma parte integrante del pasto, addirittura centrale in alcune circostanze. Pensiamo ai turisti che vengono in Italia e che magari non conoscono i piatti classici del territorio ma sanno chiedere perfettamente un calice di Chianti in Toscana o un Barolo nelle Langhe. È il marketing di un territorio a portarli fin qua e un vino indimenticabile è ciò che si aspettano di trovare: un’esperienza da vivere, non solo un bicchiere. Il cibo non può che seguire quella strada già tracciata”.
Centro Italiano di Analisi Sensoriale
Lucia Bailetti, ingegnere alimentare e direttore del CIAS, coordina i servizi di questa realtà specializzata in analisi sensoriale e studio dei consumi, soprattutto alimentari: una società cui si rivolgono brand di fama nazionale ed internazionale per mappare con questa prospettiva scientifica i punti di forza o di debolezza dei propri prodotti e posizionarli sul mercato in funzione strategica. Come incidono, allora, i profili sensoriali del cibo e del vino in un percorso di abbinamento? “La parola chiave – dichiara Lucia Bailetti – è l’olfatto, perché solo attraverso percezione e conoscenza dei profili aromatici dei vini e dei cibi è possibile accostarli creando un’armonia. Ritengo del tutto irrilevante che si parta dal piatto o dal calice per arrivare all’equilibrio finale: cibo e vino hanno una ricchezza paritaria sul piano dei profumi, forse è soltanto una questione di cultura, intesa come conoscenza dei profili sensoriali, che però quasi ovunque risulta carente. Magari sono proprio gli chef i primi ad agire inconsciamente con questo criterio infallibile ma per loro soltanto empirico. L’ipotesi di stimolare un abbinamento che prenda le mosse dal vino potrebbe rivelare aspetti nuovi per il mercato, ma richiederebbe senz’altro l’introduzione di un diverso approccio da parte dei consumatori che immagino difficile, per non dire impossibile, a livello di ristorazione. Il discorso si farebbe più semplice per enoteche e locali specializzati che il cliente sceglie con una indubbia predilizione per l’aspetto enologico prima ancora che gastronomico. I nostri sensi, se stimolati con curiosità, possono riservarci potenzialità finora sconosciute: la vera piacevolezza deriva da quell’armonizzazione dei profumi che permette di potenziare l’effetto finale in bocca. È utile sottolineare quanto e come i profumi indirizzino le nostre scelte e questo vale a prescindere dalla prospettiva di partenza. È solo con l’olfazione, sia essa diretta o per via retronasale, che stimoliamo emozioni, gusti e inevitabilmente acquisti”.
I dati contenuti nell’ultima indagine Eurisko sulle carte dei vini ritraggono un Paese sempre più consapevole delle proprie scelte (il 58% decide per gusto personale piuttosto che su suggerimento del sommelier) con un deciso miglioramento delle proprie conoscenze al Centro-Sud e una più affermata autonomia nelle regioni nord-occidentali. Per un’Italia che nel 2013 si conferma al secondo posto nel mondo per export, tenendo il fiato sul collo dei francesi, varrebbe la pena investire sempre più su una cultura interna del vino che appassioni i consumatori e tuteli un patrimonio. Lasciando intatta, neanche a dirlo, la regola del de gustibus.
di Stefania Zolotti
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