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Ve lo ricordate l’understatement? Una dozzina di anni fa sembrava essere il nuovo valore che avrebbe dominato nella società (e nell’economia) del futuro. Secondo sociologi, ricercatori, uomini di marketing ecc., la necessità di un “ritorno alla semplicità” era auspicabile: e la cosa riguardava la vita di tutti i giorni, il cosiddetto lifestyle, l’alimentazione, le abitudini, il modo di relazionarsi con gli altri. “Rilassatevi!” sembrava essere il motto a cui uniformarsi, dopo tanti anni di yuppismo dilagante e di ansie di protagonismo francamente iperboliche. Erano i tempi degli agriturismi, del rural chic, della fuga dalle città inquinate, della bella trattoria fuoriporta: un tempo in cui il benessere acquisito generava sicurezze e, con le sicurezze, il desiderio di trovare tutte le strade possibili per stare meglio. Anche nella ristorazione questa parola d’ordine si diffuse a macchia d’olio: e via con l’esaltazione della cucina povera, dei piatti semplici, degli ingredienti genuini, delle sane tradizioni del passato. Era una tendenza abbastanza generalizzata, direi di massa: molti pensavano al benessere in chiave zen, altri con l’illusione (oggi possiamo definirla così) di raggiungere equilibri interiori e serenità psicofisica. Come sembrano lontani quei tempi… . Oggi il benessere, più che un obiettivo, sembra essere una branca del business (spa, massaggi, palestre ecc.) e, più che nutrirsi di sane passeggiate nei boschi, rimanda ad esperienze economicamente impegnative, destinate alla clientela internazionale più che alla gente comune, agli italiani in difficoltà economica. Già, con la grande crisi gli italiani hanno ulteriormente ridimensionato abitudini, stili di vita, acquisti e, soprattutto, motivazioni. Un peccato, imputabile certamente a fattori recessivi ma anche a incompetenza e corruzione di gran parte della politica, concentrata sui propri affari e non certo sulla crescita del paese. D’altronde, per l’industria dell’ospitalità è sempre più arduo fare profitti con la clientela italiana: le grandi opportunità arrivano da fuori e, viene da dire, per fortuna! La crescita dell’export (di vini e food di qualità) è ormai da anni un dato acquisito. E la tendenza non riguarda solo la fascia alta delle produzioni, ma l’intero comparto del food e del beverage. Tra i nostri confini, è sempre più frequente sentire, dopo questi mesi di vera manna per albergatori e ristoratori di qualità (ubicati nei bacini “giusti”, logicamente), frasi del tipo: “Meno male che ci sono gli stranieri, che fanno girare il lavoro. Se fosse per i nostri connazionali, potremmo chiudere!”. Frasi amare, certamente, che fanno riflettere sulla “condizione degli italiani”, ma che paradossalmente possono contribuire a migliorare la “situazione italiana”. E che ci fanno anche capire quanto sia ormai fondamentale lavorare in modo globale, uscendo una volta per tutte dai limiti oggettivi che ancora contraddistinguono la nostra offerta di ospitalità, troppo spesso banale e approssimativa, priva della cultura necessaria ad affrontare una domanda sempre più esigente. Oggi (noi per la verità lo diciamo da molto tempo) non possiamo più permetterci un approccio scontato ai problemi. Dobbiamo mirare l’offerta, sapendo distinguere fra le esigenze di un cliente francese e di uno russo, di un americano o di un arabo, riuscendo ad offrire servizi differenziati ed eccellenti, competitivi e strutturati. Certo, l’impresa è complicatissima e non potranno farcela tutti: ma da questa nuova centralità del mondo, conseguente a una indubbia uscita di scena della clientela media italiana, nasce anche una considerazione positiva. Chi ha le carte in regola e lavora sulla qualità (in qualunque tipologia di offerta si trovi ad operare) ce la potrà fare. Ai livelli più alti – dove già la professionalità è un valore – forse sarà più semplice. Ma “il sistema che verrà” deve coinvolgere tutti, nessuno escluso. Se questo avverrà, nel mondo che cambia troveremo il nostro dignitosissimo spazio. Ce lo meritiamo, nonostante tutto. Alberto P. Schieppati

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