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Easy chic sembra essere la definizione più in voga per esprimere un format innovativo nella ristorazione contemporanea. Un esempio per tutti, una volta tanto proveniente dal sud e precisamente dalla Sicilia: Antonio Lo Coco, chef stellato Michelin nel suo ristorante I Pupi, a Bagheria (Pa), ha appena aperto un nuovo locale, parallelo al primo, in cui propone taglieri di salumi e formaggi locali, piatti connotati da materie prime sfiziose, realizzati utilizzando gli stessi ingredienti del ristorante primigenio, ma connotati da minor servizio, semplificazione dell’offerta, prezzi più accessibili, con un chiaro messaggio ai giovani affinché siano consapevoli del patrimonio gastronomico territoriale e delle potenzialità che può sviluppare. Già ci aveva pensato, in tempi non sospetti, Claudio Sadler, quando a Milano si inventò Chic ‘n Quick, la formula alleggerita rispetto al ristorante stellato, con cui proponeva il suo know how in modo, appunto, semplificato, ma pur sempre di alto profilo qualitativo. Come Sadler e Lo Coco sono tanti gli chef che, nel tempo, hanno diversificato l’offerta, mantenendo però integro e riconoscibile il proprio stile. La famiglia Alajmo è a sua volta maestra in quest’arte: l’esempio di Amo, la bella pizzeria veneziana al Fondaco dei Tedeschi, vicino a Rialto, è esemplare in tal senso. Per non dire di Tonino Cannavacciuolo, con i suoi Bistrot di Novara e Torino, che rappresentano meno scenograficamente ma con grande efficacia lo stile e la classe di Villa Crespi. O del pluristellato Enrico Bartolini, maestro nel creare massa critica attraverso l’apertura di nuovi locali. Questa tendenza, che sembrava inarrestabile nel primo decennio del nostro secolo, e che ancora comunque è parzialmente diffusa, sta però lasciando spazio ad altre riflessioni, ad altre valutazioni, ad altre scelte. E ad altri investimenti. Come, per esempio, quella di dare vita a situazioni del tutto nuove e diverse, non necessariamente percepite come “diversificazioni” (con tutto il rischio di risultare gregari e subordinati in qualche modo alla casa madre) ma come entità del tutto nuove e originali. Il caso del Campamac di Barbaresco, un luogo straordinario per versatilità di offerta, qualità di cucina, cantina e servizio), appena aperto dal grande Maurilio Garola (chef patron alla Ciau del Tornavento, una stella) e dal frizzante Paolo Dalla Mora (imprenditore di successo, nonché genero di Angelo Gaja), è la dimostrazione di questa nuova tendenza, che non vuole e non può essere identificata come l’espressione di una “seconda scelta”. Ma ha la dignità di un ristorante con una formula propria, chiamiamola “Osteria di livello”, mutuando la definizione scelta dai titolari. Mi spiego meglio: la struttura non deve esprimere necessariamente parallelismi ma (non disdegnando evidenti sinergie) deve essere completamente autonoma dal “santuario” principale. Deve essere capace di portare sulla terra, concretamente, una linea di cucina “altra” rispetto alla principale, talvolta ritenuta “da grande esperienza gourmet”. E ci sta: la destinazione alta è e resterà sempre un grande motivo di attrazione gastronomica per gourmet che, esattamente come la nuova creatura, continuerà a vivere di luce propria. C’è qualcuno che osa dire che il rischio è di cannibalizzare e che non c’è abbastanza mercato per giustificare nuove aperture? Lo stoppiamo subito: come? Portandogli testimonianza diretta di come, nella stessa serata e a pochi chilometri di distanza, ristoranti con stili e clienti diversi registrino il tutto esaurito. Ovviamente, la qualità deve essere altissima, qualunque sia il format del locale e la tipologia di offerta. Questo, insieme ad altri, sarà il tema del prossimo FOLLOW ARTU’, nel quale continueremo a lavorare sui contenuti per seguire (e guidare) l’evoluzione del settore in questi anni così complicati.

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