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Scienziati del vino” o “wine maker di tendenza”? In che ruolo si identificano i giovani enologi? O tendono ad essere fedeli testimoni di una tipicità? E come vedono il futuro del comparto vitivinicolo quanti hanno appena iniziato l’attività?

Abbiamo voluto porre alcune domande ad alcuni professionisti del futuro …La prima intervista di Artù è a Sara Icardi, giovanissima enologa presso l’azienda di famiglia, che ha sede a Castiglione Tinella (Cn).

Intervista raccolta da Alberto Schieppati

Il vino è un prodotto complesso che, dalla vigna alla cantina, ha sempre più bisogno di vedere tutelate le proprie caratteristiche, a cominciare dal vitigno, dal territorio, dal microclima, dalla resa per ettaro, per arrivare fino alle pratiche di laboratorio, all’affinamento, all’imbottigliamento e raggiungere poi il mercato dei consumatori che ne decreteranno l’eventuale gradimento e l’auspicato successo… Ma qual è oggi il ruolo dell’enologo nel trasmettere questi valori al consumatore? Fino a che punto sono in grado di contribuire a creare un prodotto memorabile, caratterizzato e, soprattutto, con una marcia in più rispetto a prodotti concorrenti?

Artù inizia il suo viaggio con Sara Icardi, figlia d’arte, vera e propria “enologa del futuro”, che racconta in esclusiva le sue passioni, il suo impegno, le sue aspirazioni.

Ci parli della sua sfida professionale, dei motivi che l’hanno spinta a scegliere questa professione…

Quando mi trovai, dopo gli studi superiori, a dover scegliere il tipo di strada da intraprendere, la mia decisione non fu immediata. Provenendo da una famiglia in cui, sia dalla parte di mio padre che di mia madre, il vino è sempre stato prodotto e commercializzato, forse la scelta poteva sembrare banale e scontata; toccando con mano le problematiche di questo settore (crisi, maschilismo, competizione), si può dire che abbia proprio voluto mettermi alla prova. Chiuso gli occhi, incrociato le dita e via per una strada in salita. “C’è chi dice che la vista alla fine sia meravigliosa” pensavo, ed eccomi laureata in Viticoltura ed Enologia, dopo alcuni anni. Un’emozione unica: come buttarsi da un trampolino altissimo. Pura adrenalina. Ovviamente un diploma di laurea non ti trasforma in un enologo e quindi mi sono sempre impegnata a lavorare in diverse aziende tra cui naturalmente quelle famigliari. Quest’ultime sono state le realtà più stimolanti, essendo i miei genitori pieni di spirito di iniziativa e alla ricerca incessante di armonia in tutte le sue forme: in vigna, nel vino, nella vita. Questo è quello che aspiro a trasmettere un giorno, appena avrò la possibilità di intraprendere un progetto tutto mio. Per ora lascio che gavetta in vigna e cantina e studio mi preparino al fatidico giorno.

Quali aspetti di un vino le preme trasferire al consumatore? Unicità? Territorio? Tipicità?

Un gran vino per me deve essere qualcosa di unico, deve esprimere le sue origini, la sua terra, nuda e cruda, forgiato dalla variabilità delle annate, dall’attività del vitigno scelto, dalle decisioni viticolo-enologiche, un po’ imprevedibile ma allo stesso tempo irripetibile. Vivo in un mondo in cui si sta perdendo la tipicità, in cui tutto è omologato ripercuotendosi anche su un bene che per primo dovrebbe esprimere una certa singolarità ma che ora sta rischiando di essere paragonato ad una bibita qualsiasi, l’una vale l’altra.

Dunque, la priorità consiste nel produrre un vino che sappia trasmettere un carattere proprio, ma che esprima anche – lei dice – “imprevedibilità”. Che cosa intende per “imprevedibile”?

La mia idea di vino non deve essere travisata. Per imprevedibile non intendo dire che il vino debba essere abbandonato al suo destino, anche perché altrimenti si rischierebbe di fare l’errore di molti colleghi che, nascondendosi dietro l’etichetta “biologico”, “naturale” o “biodinamico, pensano di essersi messi a posto con la coscienza. Io personalmente appoggio la “biodinamica” o, meglio, l’ Agricoltura Antroposofica, ma penso che ci sia bisogno di trovare un giusto compromesso tra il concetto di naturalezza e scienza, quale appunto una risorsa, quest’ultima, giustamente conquistata. Tutto sta nel “senso di equilibrio”… e , come più volte affermato da Steiner, nel buonsenso.

Nella logica del “buonsenso”, che spazio occupa la ricerca enologica? E con quali tecniche?

Direi: sì alla ricerca, sì alla sperimentazione di nuove tecniche (viticole e enologiche), si all’impiego di botti, barrique, tonneau, anfore, vasche in cemento od in vetro come contenitori per l’affinamento. Fare vino non equivale ad abbandonare le moderne conoscenze e a catapultarsi indietro di cent’ anni o più, bensì produrre un prodotto salubre, utilizzando, perché no, metodiche ecocompatibili ma con lo spirito di uno che non si sentirà mai “arrivato”, ma continuamente alla ricerca di qualcosa di ancora più soddisfacente. Per preservare i caratteri d’origine di un vino quindi a mio parere si dovrebbe avere innanzitutto un’idea di “tecniche enologiche” e non di “tecniche di correzione”. Bisogna quindi partire da una materia prima il più possibile sana, quindi evitando, o meglio abbandonando l’uso di prodotti di sintesi nella conduzione del vigneto. A questo fine si dovrebbe attuare ed applicare un’agricoltura di tipo sostenibile; “biodinamica”, “biologica”, “cosmocolturale” o in un altro modo ancora ma il fine deve essere lo stesso: quello di salvaguardare in nostro ambiente, utilizzando più la prevenzione come sistemadi difesa e dicuradelterrenoe delle coltivazioni. Parlando in modo pratico: limitando l’utilizzo di macchinari pesanti , inerbendo i filari, utilizzando prodotti di difesa non invasivi, cercando quindi di stimolare la vitalità de l suolo e quindi delle piante che dagli anni ’70 ha visto i viticoltori come delle madri apprensive che al primo accenno di starnuto ti somministravano l’antibiotico.

Questo in vigna. E in cantina?

Questo discorso è applicabile anche in cantina. Bisogna sfatare l’equazione per cui l’utilizzo di mille additivi o di lieviti selezioneti, forse anche OGM, equivale produrre un grande vino. M Una fermentazione con lieviti indigeni presenti su uve naturalmente sane permette di ottenere un vino sincero e davvero irripetibile. Io stessa ho seguito, monitorato, le fermentazioni alcoliche dei vini “biodinamici” della cantina di famiglia e posso assicurare che il risultato ottenuto è entusiasmante. Il vino ha carattere e personalità non standardizzati dalla tecnologia ma unicizzati dall’espressione pura del “terroir” . In una spiccata logica di marketing, il produttore vitivinicolo spesso privilegia un vino che “deve piacere” ai consumatori e agli enoappasionati, prima ancora che un vino “rispettoso delle proprie caratteristiche varietali”.

Qual è la sua posizione in merito?

Produco “un vino che deve piacere” o “un vino rispettoso delle proprie caratteristiche varietali”? me lo chiedo spesso anch’io…Penso non siano cose antitetiche, credo invece che un vino dal carattere pronunciato (questo non implica i tanti difetti che oggi si riscontrano nel mondo “bio”) possa a maggior ragione essere gradito dal mercato perché,oltre che buono, sano. Viviamo in un periodo in cui l’apertura al libero scambio a livello ormai globale , la rivoluzione informatica e la conseguente espansione delle comunicazioni hanno indotto la creazione di un “villaggio globale”, un mondo unico in cui si è costretti a produrre prodotti standardizzati per poter essere apprezzati da un numero sempre maggiore di persone, per soddisfare mediamente tutti i gusti. Però questo vale per le grandi produzioni. Per l’industria.

Parliamo, ancora, di naturalità e salutismo. Secondo lei è solo moda?

Nell’esperienza quotidiana ho potuto constatare che vi è una curiosità sempre maggiore verso prodotti più tipici, particolari, più salubri, di nicchia, probabilmente nata dopo le tante emergenze alimentari che hanno tristemente dimostrato come la rincorsa all’industrializzazione dei processi agricoli, questo sì è un ossimoro, porti a delle terribili ripercussioni sull’ambiente e sulla salute stessa dei consumatori. (mucca pazza, influenza aviaria, metanolo, aviaria, mozzarelle blu ecc.). Tornando al vino, sono convinta che vi sarà sempre più spazio per prodotti buoni e naturali. Il vino che presenta tali qualità dovrà derivare da delle uve sane e senza contaminazioni di carattere chimico -industriale, il più possibile integro in modo da evitare l’insorgere di ossidazioni deleterie per i suoi caratteri organolettici e scevro anche da pericolose riduzioni che conferiscono sgraditi sentori animaleschi.

Chi garantisce concretamente la naturalità di un vino?

Per garantire la naturalità del prodotto al consumatore purtroppo non è più sufficiente l’autocertificazione, almeno, ora non basta più. Ora il consumatore, dopo i già citati allarmismi alimentari, ha (giustamente) l’atteggiamento di S. Tommaso dove “se non vedo, non credo” e quindi molto utili possono essere le etichette “biologico” eo “biodinamico” utilizzate solo su alimenti che sono stati prodotti seguendo determinati protocolli e che hanno superato i dovuti controlli sanitari.

Una parola sull’affinamento in legno. Barrique si o no?

Un passaggio in legno per l’affinamento secondo me conferisce al vino, soprattutto a quello dotato di grande struttura, caratteristiche particolarmente piacevoli. Ovviamente il sentore “boisé” non deve essere coprente o comunque prevalere ma deve armonizzarsi con gli aromi varietali della cultivar in una totale sinergia con le altre caratteristiche indotte dal territorio in cui viene prodotto. Sto iniziando ad apprezzare botti e barrique in legno di acacia che stiamo sperimentando in famiglia. Trovo che rispetto al rovere francese od a quello di slavonia, inducano caratteristiche di pienezza e “dolcezza” più affini , più in armonia all’ambiente della regione in cui sono coltivati i nostri vigneti ed in cui con orgoglio posso affermare di trovarmici benissimo anch’io.

(APS)

© Artù

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