Skip to main content

Alberto P. Schieppati

La situazione è fluida, quindi confusa, dunque in evoluzione. Lo scenario della ristorazione italiana evidenzia un grande movimento. Verso l’alto e verso il basso, contemporaneamente. Se le aperture (talvolta velleitarie) di locali ambiziosi crescono, allo stesso tempo le cosiddette “seconde linee” di grandi chef stellati evidenziano la necessità di andare incontro a una clientela che, seppur segnata dalla crisi, non intende rinunciare al gusto, all’esperienza importante, di cui poter parlare e raccontare. La proliferazione di “osterie”, bistrò, pizzerie gourmet, macellerie e altro, riconducibili a nomi importanti del firmamento stellato rivela una incontenibile e necessaria esigenza di diversificazione, oltre al bisogno di far quadrare i bilanci. Quella che viene definita, spesso impropriamente, “gourmettizzazione”, è comunque un fenomeno di cui tenere conto. L’esigenza di semplificazione dell’offerta, peraltro, non è del tutto nuova: in tempi non sospetti, Claudio Sadler, bistellato Michelin, aveva aperto il suo Chic and Quick a Milano, a pochi metri dal ristorante principale. Una evidente dichiarazione di intenti (rendere accessibile una linea di cucina importante, mantenendo qualità e esecuzioni a livelli qualitativamente alti ma più semplici e economici), che aveva anticipato intelligentemente i tempi. Chi, allora, gridava allo “scandalo” ha poi, nel tempo, dovuto adeguarsi all’immagine di grandi chef che fanno i testimonial di marche di patatine o di stinchi precotti o di società finanziarie. O comunque si è dovuto ricredere, di fronte a guide prestigiose che “promuovono” locali e cucine importanti a prezzi oulet. Il mondo, insomma, è cambiato. E non sempre in meglio, checchè ne dica qualcuno. Pur non arrivando a parlare di ”crepuscolo degli chef”, dobbiamo ammettere che lo chef vive una realtà dissociata, quasi schizofrenica. Testimonial di campagne pubblicitarie finalizzate al business, impegnato in prima linea a “firmare” e “supervisionare”, mettendo il proprio nome sopra operazioni puramente commerciali, lo chef di grido sembra avere perso il contatto –fondamentale- con la propria missione principale, che è quella di cucinare bene, di soddisfare la clientela, di comunicare uno stile. Perciò, se appare comprensibile puntare su gratificazioni economiche impensabili stando dietro ai fornelli (fra costi generali e della materia prima molto alti, oltre che a scarsa remuneratività, basse motivazioni ecc.), va detto che la “missione” del cuoco (e del ristoratore, a maggior ragione se si tratta di chef patron) è quella di esercitare al meglio la propria professione. Utilizzando anche lo strumento mediatico (tv, giornali), ma senza mai dimenticarsi qual è il suo mestiere. Fra chi punta in alto (spesso senza avere la caratura necessaria) e chi è costretto a scendere verso il basso (con promozioni, seconde linee, pseudo trattorie griffate) , mi piacerebbe che prevalesse un ritorno alla RAGIONEVOLEZZA. I segnali ci sono, ottimi: e sono quelli che più ci interessano: materie prime di alta qualità, esecuzioni perfette, piatti che si facciano ricordare, ambienti ed atmosfere all’altezza dei piatti. Nel solco della tradizione o dell’innovazione poco conta, purché il piatto esprima coerenza, schiettezza, bontà: in qualunque segmento di offerta, dal tristellato alla trattoria, ci piace cogliere passione, tensione positiva, orgoglio ed ambizione, voglia di fare bene. E, per essere ragionevoli (come ha sempre detto Paolo Teverini, lo chef di bagno di Romagna), in cucina bisogna starci. Ad ogni costo.

css.php