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Alberto P. Schieppati

“Amo sulla tavola, quando si conversa, la luce di una bottiglia di intelligente vino”: sono versi del poeta Pablo Neruda, che sottoscriviamo in toto. In particolare, ci piace quell’aggettivo “intelligente” riferito al vino, ovvero: non roboante, non griffato, non furbescamente godereccio ma semplicemente intelligente. Talvolta ci pare che questo aggettivo molto chiaro e per nulla vago – stia rischiando di perdere schietti sostenitori nella moderna offerta di ristorazione: superata la fase della comprensibilità della materia prima di qualità, giustamente assurta a protagonista delle linee di cucina (e del vino di valore nelle carte dei vini) da parte di tanti chef e ristoratori, ci sembra di essere un po’ ritornati all’epoca dello “stupore”. Se non stupisci il cliente, non esisti. O non parlano di te, e quindi non sarai mai famoso. E qui sorge spontanea la domanda: ma uno fa il ristoratore, o lo chef, per diventare celebre? Passa 10 o 12 ore in cucina per venire citato nelle enciclopedie? O per arrivare alla stella Michel in due settimane? Si inventa piatti astrusi e inconcludenti (e oggettivamente sbagliati) per attirare l’attenzione? Di chi poi? È vero che chi ha occupato incessantemente gli schermi delle tv che contano (e anche delle altre) si è ritagliato spazio per business persona li legati al mondo della comunicazione e della pubblicità. Ma sono si e no cinque su 50.000, lo 0,01% della totalità degli chef. E allora? Basta inseguire falsi miti, parliamo di cose vere una volta tanto. L’altro giorno, al Carlo Porta (uno storico istituto alberghiero di Milano), degli studenti di sala molto bravi mi confermavano che i nuovi iscritti prediligono i corsi di cucina, con l’obiettivo dichiarato di diventare grandi chef. Accade da anni, ormai. E l’approccio è sempre acritico, slegato dalla realtà, svincolato da serie logiche di apprendimento. Hanno tutti fretta di entrare nell’olimpo, di diventare dei fenomeni, di guadagnare tanto. Un modello perdente, che sembra però essere l’unico vincente. Il potere devastante della tv, verrebbe da dire, con triste consapevolezza, regala solo illusioni, che fanno a pugni con la realtà. Anche per questo, Artù ha deciso, come sempre, di non stare a guardare e di riunire gli “stati generali della ristorazione”, nel prossimo autunno, a Milano, per affrontare queste ed altre tematiche: partiremo dal ruolo dello chef nella ristorazione contemporanea per affrontare poi il tema del valore della materia prima, dell’importanza della critica gastronomica, del servizio di sala (e della necessità di umiltà, nel senso più alto del termine), del gusto e della salute, dell’offerta intelligente di vino, di ingredienti e di materie prime, di equipment e di tecniche, di Made in ltaly e di prodotti d’importazione, del luxury vero e di quello finto. Tutto secondo quella logica di RAGIONEVOLEZZA che ci muove, certi che non si possa più prescindere da una analisi approfondita di una realtà complessa, che va comunque ricondotta in un ambito di semplificazione. Il mondo è già afflitto da troppa confusione per non cercare, concretamente, di ristabilire il primato della ragionevolezza. Nell’horeca, ma non solo •

 

Editoriale Artù N° 79

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