di Maurizio Bertera
L’executive chef del Seta, il ristorante del Mandarin, a Milano, spiega i motivi del suo successo: e descrive coraggiosamente la mission del suo mestiere.
Rilassante. Talmente tranquillo e sereno da non avere neppure bisogno della prima fila. Anche se in pochi mesi di attività, il Mandarin Oriental di Milano ha conquistato pubblico e critica (il premio più recente: il Five Star di Forbes Travel Guide), pare bearsi di stare “nascosto” tra via Manzoni e via Monte di Pietà, celando il lusso e un giardino interno molto suggestivo. In un progetto colossale ma al tempo stesso non strillato, non sorprende trovare Antonio Guida al timone della cucina. Un timone che deve essere saldo, visto che supportato dal suo storico sous-chef Federico dell’Omarino, coordina 33 cuochi: 12 per il Seta, 7 per il bistrot, 7 per la pasticceria e 7 per il room service. Una “corazzata” che il 43enne salentino guida – nomen omen – con mano gentile, equilibrata ma ferma. I risultati si sono già visti. E c’è la sensazione che il progetto Seta – ristorante gourmet – abbia una potenzialità che espressa gradualmente, come piace a lui e ai suoi collaboratori, colga traguardi non dichiarati espressamente ma studiati chirurgicamente. Guida sorride, ma non si nasconde.
Caro Antonio, apriamo con le benemerenze in pochi mesi dall’apertura: miglior cucina di Milano per il Gambero Rosso, primo in nuce per l’Espresso e una stella Michelin che molti giudicano già anticipazione della seconda.
Sono stati gentili, hanno capito lo sforzo per essere subito al top. Da parte nostra, siamo stati bravi a scegliere la brigata ma è stata vincente la scelta iniziale di aver portato con me un gruppo storico de Il Pellicano: otto persone tra cui il pastry-chef Nicola Di Lena e Federico (ndr. Dell’Omarino).
Uno pensa che i proprietari de Il Pellicano abbiamo rischiato il suicidio per un trasferimento così ampio.
Ovvio che siano rimasti basiti quando ho comunicato che li avrei lasciati per andare a Milano. Poi hanno capito che non potevo perdere un’occasione del genere. Detto questo, per me resterà un’esperienza straordinaria.
Gli altri 25 cuochi come li ha scelti?
Ho guardato il curriculum, conta comunque. Ma poi ho scelto le persone che durante il colloquio mi hanno trasmesso passione per il lavoro e amore per il cibo.
Ho saputo che l’età media è sui 25 anni. Come giudica la nuova generazione di cuochi?
Bene. I più intelligenti stanno sfruttando quello che i quarantenni come me faticavano ad avere. Si può viaggiare di più, in genere si parte da famiglie più disponibili e poi ci sono tanti maestri.
Il suo maestro è stato Pierre Gagnaire.
Un genio: mi ha segnato la vita, per la sua capacità di mettersi continuamente in discussione. Avevo 26 anni e mi sembrava di lavorare con Mozart, tanto era pazzesca la sua creatività. Cambiava molti piatti durante il servizio e parte della brigata andava via di testa per questo. Pure io all’inizio non riuscivo a capire ma alla fine del biennio da commis sono diventato capo-partita e poi saucier che in Francia ha una responsabilità enorme.
Dicono che lei non esca mai dalla cucina. Se è vero, fa notizia al giorno d’oggi.
Lo faccio perché è nella mia natura e perché reputo un po’ pericoloso restare lontano dai fornelli. Per me è come suonare il piano: più lo fai, più migliori. Poi penso che la brigata, soprattutto i componenti più giovani, siano lì per lavorare con te ed è importante stargli vicino. Fatico a capire come tanti colleghi passino così tanto tempo fuori dalla cucina. Per me è un piacere starci.
Da qui l’idiosincrasia verso la televisione?
Intanto, non amo essere sotto i riflettori per carattere. E il poco tempo libero lo dedico a mia moglie Luciana e mia figlia Viola. Dico solo che la televisione è semplicemente un altro lavoro: non ho detto negativo ma un altro. Mia opinione, sia chiaro, e comunque non discuto che tutto l’interesse creato dai programmi di cucina abbia portato più attenzione sul nostro ruolo e migliorato la percezione generale del cibo.
Il Seta ha portato un altro mattone nell’opera di “accettazione” per i ristoranti in hotel.
È vero, un tempo era concetto difficile da vendere. In realtà, un bravo cuoco migliora lavorando in strutture del genere perché bisogna adattarsi maggiormente al cliente. Qui da noi, vige la flessibilità perché soprattutto gli ospiti dell’hotel vogliono piatti fuori menu. La brigata quindi deve sapere a memoria le basi ed essere molto reattiva.
Come definirebbe la sua cucina?
Classica, rivista in chiave contemporanea se necessario. Sono un cuoco che continua a preparare – con sommo piacere – la Lepre alla Royale. Ma anche un entusiasta del Cacio e Pepe, nella ricetta originale. Il mio concetto base è la continuità nel menu. È molto più bello sorprendere il cliente con nuovi piatti, in questo c’è la mano di Gagnaire: non ho mai paura di togliere i signature dish dalla carta e rimetterli quando lo trovo sensato. È anche un modo di stimolare costantemente la brigata.
Immagino che non abbia più tempo di cercare i prodotti “live” come a Porto Ercole?
In effetti, sono i fornitori che vengono a me… Ma li conosco benissimo e li seguo con attenzione, in quanto credo nel prodotto sin da quando ho iniziato questo lavoro e adoravo sceglierli direttamente. Il salto a Milano come è stato?
Come tornare a casa. Sui circa 200 dipendenti del Mandarin Oriental, una trentina vengono dal mio Salento…E in città non faccio che incontrare pugliesi! Battute a parte, Milano mi piace molto: ordinata, pulita, con uno spirito che invita alla competitività e a migliorarsi sempre. A Porto Ercole era più semplice, qui ci si confronta con locali e hotel di grande livello.
Guida, lo sa che tanti si aspettano di vedere qui le tre stelle Michelin nel giro di pochi anni?
Ne ho sentito parlare (ndr, sorride) e penso sia il sogno di ogni cuoco. In passato lo si inseguiva in maniera spesso sbagliata, montando e smontando il locale ma anche la propria idea di cucina, senza pensare che il primo obiettivo del nostro lavoro è avere il locale sempre pieno. Oggi mi pare ci sia meno stress ed è giusto, perché resta un errore terribile – da executive chef o da patron – trasmettere ansia e insicurezza alla brigata. Quanto al Seta, inutile nascondersi dietro a un dito: si lavora per un grande progetto e i voti positivi hanno motivato ancora di più i ragazzi come il sottoscritto.
Dallo scorso luglio non si è concesso nulla salvo qualche mini-break. Vacanze mai?
Eh no, questa volta dopo quattordici anni di lavoro, potrò andare in ferie nei mesi estivi. Soprattutto a Il Pellicano era impossibile…Tornerò in Salento, nella mia Depressa (ndr, frazione di Tricase), e in questo caso davvero non toccherò una sola pentola: cucina mamma Michelina, che mi ha educato al rigore e al gusto. E non vedo l’ora di riassaggiare la sua lasagna: non è un piatto ma un rito.
La squadra vincente del Mandarin
La “corazzata” del Mandarin Oriental, in sala, è guidata dal bravo Alberto Tasinato, direttore del Seta e del servizio colazioni e playmaker a tutto campo. A lui è affidato il compito di gestire venti persone e quattro hostess, tenendo ben presente le esigenze di chi siede senza fretta al Seta o più frettolosamente al bistrot che si affaccia sul bar, dove a comandare c’è un altro fuoriclasse quale il bartender Mattia Pastori. Non è un caso che per i casting Tasinato abbia impiegato sei mesi: “Cercavamo persone non solo esperte e competenti, ma soprattutto con l’attitudine al progetto. Ho fatto colloqui lunghissimi come test sulla capacità di interfacciarsi con l’ospite”. Giovane ma già esperto navigatore, Tasinato ha chiarissimo l’obiettivo del Mandarin Oriental e del Seta in particolare: “L’importante è vivere ogni giorno, ogni servizio, come fosse il primo. Senza stress, ma coinvolgendo tutti nello sforzo di far sentire l’ospite come un re e venire incontro alle aspettative. Che qui sono elevate, ovviamente”. Una domanda d’obbligo: ma la crisi della sala? “Se ne parla tanto, forse troppo. Sembra che essere fuori dalla cucina sia un inferno e non si trovino persone ma la realtà è diversa. Sicuramente è un lavoro impegnativo, ma ha dei vantaggi e in una struttura alberghiera come la nostra, permette ritmi meno stressanti che in un ristorante nomale. Ecco, io non continuerei a parlare di crisi ma di prospettive della sala”. Ben detto.
Mandarin oriental, un gioiello nel cuore di Milano
Per lo sbarco in Italia, Mandarin Oriental Hotel Group – colosso con 11mila camere in 47 strutture di 25 Paesi – ha scelto il centro di Milano, compiendo un vero capolavoro (da qui i tempi ovviamente lunghissimi per l’opera) su quattro palazzi del 18° secolo, a poca distanza da Piazza della Scala. L’entrata è in via Andegari 9 mentre la Spa su 900 mq – che è stata considerata in pochi mesi la migliore d’Italia dalla Forbes Travel Guide – si affaccia anche su via Monte di Pietà. Raffinato e lussuoso, l’hotel ha 73 camere e 31 suite. Due i locali interni, che possono contare su altrettanti cortili – destinati a diventare un must nei prossimi mesi – e con orari diversi: il Seta viene utilizzato per colazione, pranzo e cena con le scansioni di un albergo di lusso (sabato a pranzo e domenica lavora solo dalle 7 alle 10.30) mentre il Mandarin Bar apre alle 8 e chiude alle 2, salvo domenica, lunedì e martedì quando anticipa di un’ora lo stop. Il general manager del Mandarin Oriental è Luca Finardi.
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