È vero che “indietro non si torna”. E ci mancherebbe. Ma che cosa ci riserva il futuro? Durante l’Expo, diciamocelo, abbiamo fatto indigestione, in ogni senso. L’abbuffata, soprattutto quella mediatica, è stata imponente, per non dire esagerata. Ogni giorno decine di eventi mettevano in primo piano il Food inteso come consumi quotidiani in loco di tonnellate di cibo (artigianale, locale, etnico, perlopiù industriale) e, quindi, in una logica di interesse verso i mercati. Insomma, feed the market, più che feed the planet. L’ubriacatura da food (il beverage e il vino in particolare hanno avuto un ruolo decisamente secondario durante i mesi dell’Esposizione Universale) ha ottenuto comunque il risultato di rendere il comparto alimentare protagonista dello scenario nazionale. Con tutti gli annessi e connessi: molti ristoranti di Milano hanno lamentato cali più o meno vistosi delle presenze di clientela (attirata dal megaristorante Expo), altri viceversa hanno goduto del supplemento di vivacità che ha contaminato positivamente la città. E ne hanno approfittato, grazie anche a spirito d’iniziativa e lungimiranza commerciale. Ma, per il resto, abbiamo visto scatenarsi una ridda di mood, vecchi e nuovi, contrassegnati dalla ricerca eterna di sopravvivere a se stessi, cavalcando (spesso goffamente) mode, linguaggi, tendenze. Così registriamo una congerie di vacuità non indifferente: con la scusa dell’incontro fra gastronomia e scienza abbiamo sentito sproloqui di impronta “diet” su menù anti-aging, destinati a chi non vorrebbe invecchiare mai, su “social innovation” non meglio precisata ma sorretta da “emotional marketing” destinato a “business consapevoli”, su “show cooking” di natura promozionale che hanno rastrellato schiere di mangiatori a sbafo ma che hanno lasciato un vuoto nella memoria o, al massimo, qualche post sui social. In questa confusione, sembra che il concetto di “qualità” (di cui si parla purtroppo sempre meno, in tutte le sue varianti) sia stato sostituito da un termine molto appealing, ECCELLENZA, che ci ritroviamo dovunque: per strada, in tasca, dal parrucchiere, al supermercato. Oggi l’eccellenza regna sovrana nel mondo della comunicazione, sembra avere fatto piazza pulita di tutti gli altri valori: carattere, stile, personalità, tipicità, bontà, coerenza. Parole disperse, scomparse, in via di estinzione, schiacciate dall’attenzione dominante verso l’eccellenza, in ogni sua forma, che riguarda persone e prodotti. “Un approccio di eccellenza verso l’universo Vegan” o “prodotti gluten free connotati da eccellenza produttiva” o “chef di eccellenza per linea di cucina innovativa”: sì, anche “innovativo” è diventato un termine molto modaiolo, insopportabile. Forse la parola “nuovo” sta invecchiando? Mah. Se ne vedono e leggono di tutti i colori. A quanti fanno abuso di questi termini, suggerisco di impegnarsi per creare una sorta di “comitato innovativo per la certificazione dell’eccellenza”, naturalmente avvalorato da qualche Dipartimento universitario. Sennò, che eccellenza è? Potrebbe essere una base di partenza per il futuro che, a quanto sembra, appare sempre più complicato e bisognoso di attenzioni, più che di hashtag propagandastici. Di Alberto P. Schieppati
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