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casa perbelliniApre a Verona la nuova “dimora del gusto” di Giancarlo Perbellini, che si ripropone nelle vesti di un oste tradizionale, più attento a rispettare memoria e identità che a stupire mediaticamente come molti chef oggi provocatoriamente fanno. La forza di Giancarlo sta proprio nel proporsi con semplicità, forte però di esperienze importanti e di una conoscenza delle materie prime davvero senza uguali. Casa Perbellini vuole essere uno spazio di libertà e di approfondimento per il gourmet evoluto che, alla fine, cerca sempre la verità gastronomica, meglio se in atmosfera informale e intima.

casetta perbelliniEntrate per la piccola porta, diceva Qualcuno. Un portoncino in legno di una casa qualunque, una casetta-lampada dal tetto rosso vermiglio e una scritta appena visibile: “Casa Perbellini”. Non è facile da individuare la nuova dimora del gusto di Giancarlo Perbellini. Certo, a distrarre l’occhio è la magnificenza della Basilica di San Zeno, il leggendario vescovo nero patrono della città scaligera. Un capolavoro romanico a dominare una piazza ombreggiata da alberi, dove ancora si respira la veronesità autentica, ben più che nel centro storico. Un luogo di ritrovo molto amato, dai giovani e dai vecchi, un salotto di cultura e ospitalità. Si può addirittura parcheggiare, si scende et voilà, pronti all’incontro con il cuoco giallo-blu a due stelle. Una casualità (eppure le coincidenze forse son significanti) ma sessant’anni fa, proprio al numero 16, esisteva la latteria Perbellini. Driiin! Ad aprirci il sorriso di Andrea Salvatori, sommelier in forza per anni da Pinchiorri, ritornato a mettere la sua esperienza al servizio di Giancarlo, come un tempo. L’entrata è piccina, ma accogliente, con un salottino per ricevere, come in ogni casa che si rispetti. Pentole di rame su mensole bianche, testimonianze di un sapere antico. E torni improvvisamente bambino nel mondo surreale di una parete dai neri disegni su candido sfondo: farfalle che ti vien voglia di acchiappare, rospi ai quali rifare il verso, le vecchie sedie di famiglia per fare filò. Giancarlo fa capolino dalla sala: barba leggera, camicia bianca, gilet, grembiule bianco, un torcione appeso alla tasca. Niente Bragard con il nome ricamato, niente gel e sbarbatura perfetta come ti aspetteresti dal classico chef formale. Sembra un oste, non a caso è nome che deriva dal latino hòspes, ovvero colui che riceve in casa i forestieri. Gli indizi digiancarlo perbellini 1 un cambiamento sostanziale nello stile di accoglienza arrivano uno dopo l’altro. Due sale, conta i coperti e ti fermi a ventiquattro. D’estate, fuori all’aria aperta, ce ne saranno altri, ma non molti. Siediti su comode poltroncine (potresti starci per ore, chi pensa non solo al design ma anche all’ergonomia pensa al benessere) e attendi che ti stendano la tovaglia e ti preparino il desco, come a casa quando arriva un ospite. Nel frattempo, hai molto da osservare: davanti hai una Manincor rosso amaranto profilata in acciaio, una cucina che non spaventa: non troverai mai uno scienziato che sperimenta fra fumi di azoto molecole da aggregare, ma un artigiano creativo. Professionale, dotata di tutti gli strumenti utili (piastre a induzione, plancha, roner, forni, gas), ma è quella che vorresti a casa tua. Più bassa del pavimento, in una buca, per dar modo di vedere l’orchestra al lavoro. Stupefacente vedere cinque uomini di brigata, tra i quali Giacomo Sacchetto, il sous-chef, e Giancarlo (nessun oversize, per carità, ma han tutti due belle spalle) muoversi con tale precisione e naturalezza in uno spazio così ridotto. Movimenti accurati, in ogni singolo gesto, mani operose che preparano al momento ogni singolo piatto, una creazione in opera che avviene sotto gli occhi di tutti i commensali. E non solo, si assiste anche alla preparazione, al termine del servizio (altro che televisione!). Tre lampade, nel loro bianco fascio di luce, evidenziano e scaldano le ricette finite: architetture e cromatismi da chef d’œuvre, perbellinipronte sul banco. Giancarlo, dalla cucina, parla ai tavoli più vicini, in uno scambio diretto. Si respira l’atmosfera serena, pur nell’alacre, incessante attività senza nervosismi, e anche di salvifica, ironica sdrammatizzazione: coppole al posto delle toque in cucina, in sala giacche blu su jeans e scarpe da ginnastica. Ah, finalmente qualcuno che mette un punto a capo alla mitizzazione dei locali stellati, nei quali stare in punta di forchetta, esasperazione di una formalità eccessiva. Sala e cucina danzano insieme, in contatto visivo, nulla sfugge alla giovane squadra di Perbellini (molto rodata, vengono tutti dal suo ex ristorante di Isola Rizza o comunque vi hanno collaborato) che unita fa la forza di una coralità armonica. Il perno attorno al quale tutto ruota è lui, lo chef (“ma se chiamate chef me, chiamate chef anche Giacomo”). Cinquant’anni per ricominciare, cambiando. Osando rompere degli schemi, per evolvere. Da un ristorante enorme, barocco e paludato, ad una locanda microcosmo, che odora di casa, di semplicità, di familiarità. Riscoprendo il gioco, lui un tempo così perfettino. Coinvolgendo in questo gli ospiti: un menu per esempio, si chiama “chi sceglie… prova!”, facendo scegliere direttamente tra quattro ingredienti elencati (al momento uovo, parmigiano, branzino, verza, ma cambieranno ogni tre settimane, come tutta la carta dei cibi), due che andranno a comporre due piatti. A chi non vuole stare al ristorante a cena per ore, a chi vuole poi andare al cinema, a teatro o all’opera, alle famiglie con bimbi piccoli, ai giovani che non possono spendere molto, propone il “menu veloce”: dalle 19 alle 20.45 vengono servite tre portate (fra le quali due classici della casa e un piatto nuovo, “coccole e divertissement” in apertura e chiusura) e due calici di vino, un bianco e un rosso, a ottanta euro. Dalle 21.15 invece, si serve il menu “Assaggi” di sette portate a centotrentacinque euro o il menu “chi sceglie prova” a centodieci euro a persona. A pranzo, la possibilità di scegliere fra gli ultimi due menu appena citati e il “a mezzogiorno”, composto di due portate (in più gli immancabili benvenuto e piccola pasticceria) a cinquanta WAFER DI BRANZINO E LIQUIRIZIA Crediti Serrani e Brambillaeuro. La carta vini (fai un salto nella cantina a volta, con i sassi e mattoni a vista), fissata con delle viti all’inconsueta tavoletta di legno, punta anch’essa alla semplicità, attuale parola d’ordine di Casa Perbellini (la semplicità è complessità risolta, ndr): cinquanta vini italiani e cento dal resto del mondo. Tutta la storia di Giancarlo Perbellini la ritroviamo nei suoi piatti. Prima la sua infanzia, segnata soprattutto dalla figura del nonno Ernesto, abile pasticcere come tutta la dinastia Perbellini ma anche cuoco talentuoso, oltre che dalla cucina della mamma e della nonna che dal primo mattino studiavano i manicaretti più prelibati. Poi i suoi trascorsi, riassunti brevemente. Dopo l’alberghiero di Recoaro, lavora nei ristoranti veronesi (Marconi, Desco, Dodici apostoli), nel mitico San Domenico di Imola, il simbolo della classe assoluta nel servizio, della grandezza incomparabile in cucina per l’epoca, poi in Francia (tra i tanti, Taillevent e L’Ambroisie). Nel 1989 apre il suo ristorante a Isola Rizza, perso nelle campagne della Bassa veronese. Una sfida anche allora. La prima stella nel 1999, la seconda nel 2001. A seguire, le esperienze di New York, della Locanda Perbellini al Forte Village a Santa Margherita di Pula in Sardegna, e quella di Hong Kong. Perbellini non è “solo” un grande cuoco, è un professionista che progetta, che fa crescere la sua squadra. Individua le persone capaci e poi ne diventa socio in ristoranti che fonda e che poi lascia condurre ai giovani, responsabilizzandoli (ne ha fondati ben quattordici). Ha delle visioni, riesce a precorrere i tempi, come dimostra nel suo nuovo locale. Anche nel concetto di ospitalità: a poca distanza dal ristorante, “Cinque”, cinque stanze per l’appunto, prenotabili solo su internet, senza reception, l’accesso è con un codice. Il futuro è dei curiosi di professione, di chi non si siede mai sulle certezze. Uomo di fatti, di silenzi e di opere, non di parole abusate e di gesti eclatanti per farsi largo mediaticamente. Prima di parlare, prima di rivoluzionare la sua idea di ristorante, ci ha messo tre anni di studi e di ricerche. E se gli chiedi che missione ha (molti suoi colleghi sembra che abbiano visto la Luce) ti guarda un po’ storto, sorride e ribatte: “Ma quale missione e missione, io vorrei solo portare le persone a mangcantina casa perbelliniiare cibi di qualità, riportarli a pensare e a capire quello che stanno mangiando. Io non credo proprio di segnare la storia con la mia cucina. Io ho sentito di essere un cuoco a trentatré, trentaquattro anni, nella maturità, nell’esperienza, quando ho capito che potevo veramente mettere a frutto tutto ciò che avevo dentro. Il senso ultimo sta nell’interpretare un prodotto di eccellenza senza rovinarlo. E se mi chiedi quali sono le qualità più importanti per uno chef, penso siano la passione, il senso del gusto e la perseveranza”. Eh sì, dietro quell’apparenza pacata, quel naturale understatement, brilla una forza costante, determinata e appassionata. Nel suo piatto simbolo, il wafer al sesamo con tartare di branzino, caprino all’erba cipollina e sensazione di liquirizia (foto di Serrani e Brambilla) riesce ad armonizzare tutti i sapori, tutti percepibili singolarmente, fondendoli poi in delicatezza e in equilibrio rari. Ogni sfumatura del sapore è presente in un’opera veramente sinfonica, rafforzata dal gioco di consistenze. Altri piatti storici, come lo squisito caviale affumicato e zabaglione ghiacciato o il saporito guanciale di vitello brasato, sono ancora inclusi nel menu, ma la maggior parte, come è nel carattere à la recherche di Giancarlo, sono nuovi. Una menzione va alla quaglia affumicata, pomodori confit, pistacchio e carciofi, una ricetta che è un omaggio alla tecnica e al gusto. Di Alessandra Piubello

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