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lerici okSi fa un gran parlare, in questi tempi disgraziati, di start up, di nuove imprese, di newco, e chi più ne ha più ne metta. Sull’argomento c’è una discreta confusione, dettata da necessità e inquietudine sociale, oltre che da legittima, auspicabile, voglia di fare. Certamente, in un momento di economia recessiva (ovvero, quando la liquidità, quella sana, è carente), è d’obbligo “aguzzare l’ingegno”, cercando di inventarsi nuovi modi per vivere, sopravvivere o, se l’idea funziona ed è vincente, guadagnare. Il concetto stesso di start up nasconde uno sforzo appassionato di energie, un investimento ideale (e non solo) sul rischio, la volontà di buttarsi in un business che, quantomeno all’inizio, ha costi certi e ricavi incerti. L’impressione, quando si sente parlare di questi argomenti, è di trovarsi di fronte a una sorta di movimento utopico, in cui si fondono – in versione apparentemente innovativa – elementi di vetero-capitalismo, da un lato, e di vaghe reminiscenze culturali marxiane, dall’altro. Con l’aggiunta di una buone dose di fatalismo. Come se bastasse sognare, insomma, per raggiungere risultati tangibili. Sappiamo bene che non è così, né in Italia né altrove. Il “cuore oltre l’ostacolo” è un lodevole assioma, di cui fare tesoro, ma che si scontra con una realtà ostica, segnata da una mentalità datata, scarsamente imprenditoriale, insufficiente sotto l’aspetto culturale. Prendiamo il nostro settore: nel biennio 2012-2013 hanno chiuso i battenti migliaia di attività di somministrazione (soprattutto bar e ristoranti, spesso dalle gestioni “stanche” per non dire vecchiotte), ma non si sono registrate altrettante aperture di locali, che andassero a compensare l’emorragia. Si chiude, ma non si riapre in uguale misura. La contrazione generale dei consumi non perdona, non fa lo sconto a nessuno. Eppure, sono tanti gli esercizi che lavorano e fanno profitti: ma questi ultimi sono avidamente rosicchiati dalla pressione fiscale spropositata (e presuntivamente collegata a giri d’affari inesistenti). A risentirne sono la motivazione, l’entusiasmo, la passione. Quando vengono meno questi valori, ecco affacciarsi finanziatori d’assalto, che “coprono” spese e “risciacquano” denaro sporco. Senza professionalità, senza etica, senza cultura d’impresa. Hanno voglia i teorici delle start up a parlare di “content redistribution”, ovvero di ridistribuzione dei contenuti! O della necessità di “radically democratize” il mercato e le esigenze della domanda… . Certo, qualcosa si muove, nuovi format nascono e cercano di consolidarsi sulla base di idee nuove. Nell’aria si sente una discreta voglia di cambiare, di essere sempre “sul pezzo”, magari offrendo ai clienti prodotti diversi, effettivamente legati al territorio, quando questo è possibile. O comunque fuori dagli schemi . In tal senso, ci pare importante segnalare lo sforzo di alcuni “grandi” della ristorazione che, mossi da notevole inventiva, inventano nuove formule (non minimaliste) e scoprono inedite realtà di prodotto. Fra questi, va segnalato Claudio Pasquarelli (a Bergeggi, il miglior pesce di Liguria): da poco ha introdotto in menu le ostriche di Lerici, nel Golfo dei Poeti. Dopo cent’anni, qui è ripresa l’attività di ostricoltura: questa è, in un certo senso, una vera start up! Claudio, Christian (il figlio, in sala) e Lara (la figlia, chef) hanno così soppiantato le più costose e lontane ostriche bretoni in onore di un prodotto eccellente, del posto e capace di valorizzare l’economia locale. Perché oggi, per restare sul mercato, non basta essere bravi. Bisogna anche saper cogliere le migliori opportunità. Con un’attenzione nuova e con quell’ambizione “puntuta” che porta risultati inaspettati. Di Alberto P. Schieppati

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